Pina lettera dall’Isola di Alessandra (Somalia)

Pina Ziani

Pina Ziani

2 Settembre 1966 -Isola Alessandra – (Somalia) Un barcone profondo, di metallo, dalle solide giunture, ci conduce all’altra sponda del Giuba, in quel punto particolarmente ampio e profondo.

La meta è l’isola Alessandria, l’isola della lebbra il cui nome compare forse su qualche bollettino medico, ma credo su nessuna carta geografica. Sotto i rami dei manghi, delle ponciaie, delle palme dum, è diffusa una luce da acquario di un verde intenso, riposante. Sulle nostre teste le zanzibarine , le più piccole scimmie dell’equatore, fanno felici acrobazie per venire a fissarci da presso con mobile occhi curiosi.

Questo è finora quanto di più vicino al paradiso terrestre io abbia mai visto. Per un attimo dimentico la meta del viaggio, lo scopo della visita. Il dolore sembra lontano di qui, la feroce lotta per l’esistenza, in questa pace verde, non più che una leggenda.

Sule sentiero, improvvisamente un cippo, un confine, e la realtà del dolore torna ad esploderci dentro: di qui comincia l’isolamento, la terra degli esclusi, dei paria.

L’animo trasale nel presentimento della sofferenza. Piccole shambe ( Orti) si stendono ai lati del sentiero; di lontano vediamo schiene curve di gente che indugia ad estirpare un’erbaccia, a curare con gesti amorosi una pianta.

Sul sentiero ci viene incontro una vecchia, tende due moncherini grinzosi che si stringono a tenaglia sulla moneta che il missionario ha deposto con precauzione . Sotto le nostre cineprese ronzanti, con gesti rapidi, di povero burattino, fruga nella tuta in cerca di un angolo in cui nascondere quel bene inatteso. Si allontana con gli occhi tornati vitrei nel viso da centenaria. Siamo turbati; speriamo che la nostra pietà ci riscatti, che le nostre buone intenzioni velino di dolcezza l’invadenza crudele dei nostri obbiettivi.

Non so più che cosa mi aspettassi di trovare qui: ho trovato un villaggio di tucul, silenzioso, in cui il Ramadan (me se di digiuno mussulmano), col suo obbligo severo do digiuno, spegneva i volti, i gesti, le parole. In uno spiazzo irregolare donne accasciate accanto ai tungi colmi di latte di mucca o di cammella, erano là convenute per uno strano mercato senza parole. Anche noi, professori che veniamo dal mondo della parola, passavamo in silenzio, a testa china, timorosi che i nostri saluti suonassero falsi, e tuttavia consapevoli degli sguardi intensi che ci seguivano e trapassano.

Ucul rotondi, puliti, strade ordinate di sabbia battuta; nei vani delle capanne alti corpi magri, avvolti in lenzuoli come in sudari. Il villaggio è finanziato dall’Ordine sovrano di Malta, diretto con fermezza piena di carità da un missionario francescano assistito da un medico italiano e da una giovane suora della Consolata. Ho saputo che alla sua creazione ha contribuito un medico della mia città, il dott.Tonelli, che qui è vissuto per molto tempo e qui ha lottato, solo, in ani in cui la lebbra era tabù per il mondo. Lui è morto cinque anni fa; io non l’ho mai incontrato, ma ora non posso più dire di non averlo conosciuto.

Le opere sopravvivono a noi, nel bene e nel male; lui ora è vivo qui, nel ricordo di questa gente che parla di lui con una riconoscenza grave.

Ci seguiva un lebbroso, il naso come risucchiato al centro del viso, gli occhi inquieti nelle occhiaie fonde, la pelle giallastra tesa su un cranio già morto. Non mi preva di avere davanti un essere umano, bensì una delle riproduzioni classiche, guardate tante volte con sgomento, delle deformazioni prodotte dalla lebbra. Solo le parole mi riconducevano al senso preciso di quell’incontro; non diceba il suo nome, si presentava con l’unica garanzia che gli desse il diritto di avvicinarsi: “Sono negativo” , andava ripetendo e l’accento era quello della supplica.

Bambini arrivavano e sparivano tra l’erba e gli angoli delle capanne; puntavamo le cineprese sui loro volti neri e fotografammo solo nudi sederini in fuga. Nell’ambulatorio in muratura, ampio, ordinato, estremamente pulito, con le scansie che attendono i medicinali da tutto il mondo , c’era la suora della consolata. Giovane e dolcissima ogni giorno traversa l fiume e la boscaglia per venire qui a spendere un po’ della sua giovinezza. Più in là la scuola, fresca di calce, ombrosa. Un’unica aula, un lebbroso autodidatta e sedici alunni, dagli pcchi molto grandi, molto consapevole. Sulla lavagna stava scritto :”Isola Alessandra 2 gennaio 1966”: la lingua italiana e quella universale del dolore, una calligrafia perfetta traccoata da povere mani monche. Ho accarezzato i bambini, ho stretto il braccio a quel maestro; è ammirevole che continui a lottare con tanta fede per sé e per gli altri, per tutte quelle creature che forse non usciranno mai dall’isola ma che hanno bisogno di una speranza per accettare la vita.

Forse solo in quel momento ho veramente capito il valore della cultura come ‘liberazione’ non solo dall’ignoranza, dalla solitudine, dalla sofferenza, come immissione nella sola esistenza che non conosce limitazioni, differenze, confini.

Quel maestro mi ringraziava e non capiva che dei due ero io quella che riceveva. Mi dice il missionario che il problema più grave è quello di indurre i guariti ad andarsene. Nessun malato del nostro mondo rivela tanto attaccamento alla sua camera d’ospedale.

E’ sintomatico e patetico. Il lebbroso ha paura di ricominciare a lottare, non solo per vivere, ma per farsi riconoscere il suo diritto alla vita. Nell’isola ha la sua capanna, la sua razione di pietà e di amore; fuori l’attende la solitudine, l’indifferenza, la fame.

Alcuni ci hanno accompagnati al traghetto; agitavano nel saluto i moncherini cui la lontananza restituiva una parvenza di normalità.

Pensavo a Follerau, quella drammatica preghiera, che non si può dimenticare se si è meditata, al mistero della sorte, della salute, al disegno divino che si ricompone al disopra di noi, ai doni che non abbiamo meritato, alle vite dei missionari spese nell’azione silenziosa, nella pura testimonianza; era il moneto dell’’angoscia per la miseria universale’ il momento della consapevolezza e quindi della grazia. Voglia Iddio che non sia passato invano.

Pina

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