Pina lettera dalla Turchia

 

Pina Ziani

Pina Ziani

VERSO I TERREMOTATI TURCHI

IN VIAGGIO PER UNA SPERANZA

Van-Anatolia orientale:un lago di epoca terziari,a geologicamente interessante; 250 mt di profondità vicino alla riva, parecchie centinaia al largo;uno specchio di una trasparenza unica, tra un anfiteatro di montagne innevate, incantesimo di colori polari, silenzio profondo, innocenza assoluta.

Intorno l’inferno di centoventisei villaggi, semidistrutti, di morti irrigiditi dal gelo, di vivi in paziente, dignitosa attesa di greggi raccolte sui tetti delle stalle, di militari dai volti bambini infreddoliti intorno al fuoco dei bivacchi.

Siamo arrivati fin là con un TIR di settanta quintali di aiuti: viveri, tende, coperte, scarponi, vasellame, medicinali. Attraverso la Jugoslavia, la Bulgaria fino ad Ankara e di là, anziché per la via di Erzurum bloccata dalla neve, dal sud per Adana, Gazianteb, Urfa, Diyarbachir, Bitlis. L’appello dei pastori curdi, che immaginavamo soli nelle gole delle impervie montagne del Kurdustan, si era fatto sentire più forte proprio durante l nostro ultimo viaggio nel Friuli, quando ci eravamo ritrovati con amici giunti da Torino a portare palline colorate per l’albero di Natale.

Nel paesaggio di Gemona, devastato dal sisma, fra gli scheletri delle case crollate e la fredda geometria dei prefabbricati quell’albero senza radici nella nostra nella nostra tradizione così povero di significato anche nelle nostre piazze intatte, ci era sembrato l’immagine di un cliché che imprigionava la nostra umanità e la mortificava in gesti banali e assurdi.

Decidemmo quella sera di partire per Van e non ci fermarono in seguito le notizie di una settimanale che richiamava l’attenzione sull’antico contrasto Turchi-Curdi e parlava di TIR scomparsi, di tende polari requisite, di soccorsi mai giunti a destinazione, di ostilità del governo turco, di volontà politica di disperdere quella minoranza etnica scomoda e ribelle, sradicandola dall’ambiente, privandola dell’identità.

Adesso che siamo tornati, che il viaggio, durato venti giorni, si è compiuto, che il carico è stato consegnato e noi, presenti, già in parte distribuito, che tutto, all’interno di questa esperienza, si è rivelato buono e positivo, sappiamo che le opinioni vanno sempre verificate e i pregiudizi combattuti , come le remore più gravi alle opere di pace, al cammino della civiltà.

Non abbiamo la pretesa di aver capito tutto in così breve tempo, né quella di sostituire le nostre opinioni a quelle di coloro che ci hanno preceduto ed hanno vissuto un’esperienza diversa e negativa; solo vorremmo incoraggiare la fede nell’uomo, nelle qualità che può esprimere da se stesso nell’ora della prova.

Ad Ankara prima, a Van poi, al centro della zona sinistrata ai confini con l’Iran, l’incontro con la Mezzaluna turca, equivalente della Croce Rossa, è stato talmente gratificante per noi da comunicarci un senso di colpa per la diffidenza con cui ci eravamo mossi, per lo scetticismo con cui avevamo ascoltato le notizie sull’attività di soccorso.

La Mezzaluna è organo governativo: l’abbiamo vista all’opera e l’abbiamo trovata, pur nella modestia dei mezzi, estremamente efficiente. Il supervisore da noi incontrato a Van, un laureato in legge che in tempi normali ha il compito di regolare le acque di tutta l’Anatolia, ci ha rilasciato un dettagliatissimo elenco del materiale da noi consegnato ( in nessuno dei nove viaggi in Friuli ci è stato uno straccetto di ricevuta); su ogni pacco ha apposto l’indicazione del contenuto con un’attenzione così intelligente alle cose, una così evidente volontà di servizio da lasciarci ammirati (In quanta acqua diluire il latte in polvere per adulti? E quello per bambini? Quale scadenza i medicinali balsamici? E gli antireumatici?) . E poi ordini precisi e decisi: per lo smistamento, per il carico sui camion, per le destinazione.

Ci hanno offerto due pranzi alle loro mense, pagato l’albergo, presentato al governatore militare, portato sui luoghi del sinistro, sommerso di calde espressioni di riconoscenza.

Perchè? Ce lo siamo chiesti e ci siamo detti che gli aiuti giunti da tante parti del mondo, per terra per mare e per cielo, consistenti e massicci, si erano fermatiad Ankara e, in un certo senso erano rimasti anonimi; il nostro tanto modesto nel suo valore intrinseco, arrivava con le nostre persone, con i nostri volti che volevano comunicare calore, le nostre mani che si tendevano per incontrare e stringere altre mani. Era, il nostro, più che un aiuto, una proposta di amicizia, un messaggio di speranza.

Partiti (il camionista, un missionario, un ragazzo di Udine, io) affidati dal vescovo alla Madonna del Fuoco, lungo tutta la strada abbiamo visto la Provvidenza camminare davanti a noi, incarnarsi in situazioni e persone: il padre Jacob, per esempio, il missionario assunzionista francese , in Turchia da sedici anni, che ci è stato amico, interprete, guida.

Non un guasto, un ostacolo, una difficoltà che non fosse superabile. Nella preghiera mattutina, ad ogni ripresa del viaggio, abbiamo riconosciuto questa Presenza e ringraziato per essere stati scelti, senza merito a dispensare la carità di tanti buoni.

La neve ci ci ha risparmiato il doloroso spettacolo delle rovine che tanto ci ci ha angosciato nel Friuli; lutti, angosce, sofferenze abbiamo dovuto indovinarle , anche se quel paesaggio scabro, frantumato da millenarie scosse, era di una eloquenza sconcertante e così le abitazioni-stalle che non si distinguono dal fondo bitumoso delle rosse e quella povera umanità calata nella sua giornata di fatica, che sembra appartenere a un tempo fermo, a una realtà fuori della storia. Eppure dopo aver superato Diyarbakir un paese in cui dieci anni fa un terremoto fece trentatremila morti ( abbiamo inseguito nel fondo della memoria il ricordo di quell’orrore e, con vergogna, non l’abbiamo trovata), in una locanda, in cui ci siamo fermati per cucinare sul nostro fornello da campo i maccheroni che ci rendono famosi e ridicoli nel mondo, abbiamo avuto un incontro di quelli che non si dimenticano.

Avevamo intorno tante persone, attentissime ai nostro gesti, quando è entrato un ragazzo: “Italia? Michelangelo-Leonardo”

Quei nomi grandi e luminosi dentro di noi sono entrati con lui nella poverissima stanza, ne hanno slargato le pareti; al centro, isolati, noi abbiamo a nostra insaputa, subito un esame; la verifica del nostro meritare quella grandezza era lì, nella civiltà dei nostri modi, nella nostra capacità di comunicare.
Quando siamo ripartiti, in una euforica atmosfera di larghi sorrisi, di caldissime strette di mano, di nomi scambiati e gridati, ci hanno accompagnato l’illusione di aver fatto cadere una barriera, di aver vissuto l’incontro dell’uomo nell’uomo che sta all’origine di ogni amicizia.

E ancora esperienza collaterale, per tutto il viaggio ci siamo imbattuti nel mondo dei camionisti, così duro e compresso; nel loro disperato bisogno di calore umano ad ogni tappa, attorno alle mense dei motel dove si consuma il solito piatto di pilav kabab; nei volti giovanissimi di autisti che guidano enormi camion con rimorchio, diretti ai paesi dell’Oriente, tornati ad essere favolosi per le immense ricchezze di oro nero che racchiudono. Hanno bocche già vecchie, dentature guaste; si premono le guance gonfie per un ascesso che non hanno avuto tempo, né modo di curare. Un’aspirina,una supposta di Buscopan, un aiuto all ‘ autocarro in panne (il nostro camionista è generoso ed esperto) Ecco le opere di misericordia del nostro tempo, lungo le strade della nostra ricerca.

Il bilancio del nostro viaggio è proprio questo: urgenza di reinventare il vangelo per renderlo attuale, scoperta del bisogno di farne un autentico messaggio di liberazione, all’interno della nostra vita e di quella degli altri

Pina

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